JUNIOR DIGITAL CURRICULUM DomandeClick to read
• Che percezione hanno i NEET della scuola e delle opportunità offerte dall’istruzione scolastica? • Che percezione hanno i NEET della formazione professionale? e delle opportunità offerte dall’istruzione scolastica? • Cosa “funziona” davvero per i NEET? Quali sono le maggiori preoccupazioni dei giovani né in formazione né a lavoro? • Quali sono le aspettative e le concrete opportunità di riuscita? Le Competenze Digitali: impatti e criteri di valutazione Click to read
Numerose organizzazioni internazionali, tra cui la Commissione Europea, hanno promosso a partire dal nuovo millennio e soprattutto dal 2010 programmi e politiche attive a sostegno dell’alfabetizzazione digitale di tutti i cittadini (Commissione Europea, 2016; OCSE, 2015; ECLAC, 2010). Queste indicazioni sono state spesso tradotte, in Europa e dai diversi governi nazionali, in politiche e strategie attive nel campo dell’istruzione scolastica e della formazione professionale (educazione ICT) affinché le ICT ‹‹diventino strumenti di mediazione per i processi di insegnamento e apprendimento››. Queste politiche e strategie, analizzate di seguito, hanno quindi avuto il merito di avere sottolineato il valore educativo delle ICT e cioè l’impatto che queste possono avere per ‹‹lo sviluppo personale ed educativo›› di giovani e meno giovani. Al contempo – a livello sia nazionale sia comunitario – sono stati creati numerosi strumenti e programmi di garanzia e valutazione: criteri utili per comprendere davvero quanto l’integrazione di tecnologie digitali nel curriculum educativo sia di beneficio per i discenti di diversa età, formazione e contesto. Diversi parametri e indicatori restituiscono diversi quadri, anche a seconda delle regioni geografiche analizzate nonché del micro-periodo storico preso in esame (De Pablos, 2010, Gonzalez, 2011, Colás, 2015, Conde, 2017). Sono stati per esempio presi in esame ‹‹la spesa economica pubblica›› per l’introduzione delle nuove tecnologie nel curriculum e nei luoghi d’istruzione; il ‹‹numero di ore›› effettivamente dedicate all’utilizzo consapevole delle ICT (da parte di discenti, docenti, educatori, formatori etc.). E ancora, più nel dettaglio, è stata ampiamente presa in considerazione la qualità delle ICT adoperate: le ICT nel percorso educativo e/o formativo sono davvero efficaci? Quali ICT, nel dettaglio, vengono adoperate e introdotte per formare discenti giovani e/o adulti? Gli autori e i riferimenti precedentemente citati hanno soprattutto avuto il merito di indagare la dimensione microstrutturale e soggettiva: emotività, effettiva competenza e competenza digitale percepita, percezione di utilità e vantaggio da parte dei singoli beneficiari: qual è l’impatto delle ICT e della loro introduzione nei percorsi di educazione continua dal punto di vista individuale? Tutti gli studi concordano, in ogni caso, nel sottolineare il fatto che ‹‹le competenze digitali sono da tempo competenze chiave, indicatori di successo e elementi cruciali da introdurre in qualsiasi sistema educativo internazionale››. Competenze chiave perché esse consentono ‹‹l’acquisizione di altre competenze, in modo quindi trasversale›› (Commissione Europea, 2018-19). Bisogna tuttavia sottolineare la difficoltà nel valutare l’avvenuta acquisizione e il possesso di tali competenze: una difficoltà che si riflette nell’incertezza degli strumenti e delle linee guida di valutazione. A tal proposito, il lavoro più importante è stato senz'altro svolto dalla Commissione Europea a partire dal 2017, avendo iniziato un percorso di attuazione empirica degli indicatori di valutazione teorici precedentemente proposti. Nel dettaglio, lo sforzo degli organi della Commissione Europea ha portato all’elaborazione, di recente, di modelli e criteri di valutazione empirici delle competenze ICT, prendendo altresì in considerazione la dimensione soggettiva del discente e/o formatore, educatore, insegnante, nonché il quadro socio-culturale di volta in volta di riferimento. Il modello, promosso da Jesús Conde-Jiménez (2018), ha il vantaggio di introdurre – in chiave operativa – la dimensione sociocultuale e soggettiva dell’utente-discente-formatore: Nel dettaglio, questo approccio considera le ICT non come elementi educativi di per sé, ma come elementi ibridi e olistici in grado di funzionare, per il soggetto, come medium per qualsiasi unità di apprendimento, educazione e formazione. La competenza digitale è stata quindi scomposta in una ‹‹serie di abilità, attitudini, valori›› obliqui, di base e settoriali, intimamente connessi all’utente-discente e al suo retroterra socioculturale. Un ‹‹insieme di costrutti››, di usi delle ICT, di ‹‹adattamenti a contesti e ambienti differenti››. Il carattere mobile, versatile e spesso onnicomprensivo delle competenze digitali fa sì che queste vengano considerate ‹‹prioritarie [rispetto ad altre competenze] per rispondere alle esigenze di sviluppo personale››. Il contesto socioculturale, insieme al carattere trasversale e particolaristico delle competenze digitali, assumono qui un grande valore: sarà l’utente-discente, a seconda delle proprie inclinazioni, retroterra e necessità formative, a comprendere qual è, nel dettaglio, l’insieme di strumenti e applicazioni di volta in volta più efficace. ‹‹Nel campo della tecnologia applicata e integrata nei percorsi educativi e formativi››, l’importanza dei processi micro-decisionali e dell’analisi delle specificità socioculturali si traduce nella scelta di alcuni strumenti a scapito di altri, nel potenziamento di alcune competenze e non di altre. Un aspetto sembra essere ampiamente condiviso: le competenze digitali, data la loro versatilità ed efficacia, sono invariabilmente considerate fondamentali per gli utenti-discenti per interpretare realtà e contemporaneità, per ‹‹sviluppae il proprio potenziale personale e culturale››, per compiere oggi azioni di ‹‹appropriazione culturale, anche al di là della dimensione tecnica e strumentale››. NEET, drop-out, formazione e competenze Click to read
L’Acronimo NEET (Not in Education, Employment or Training) in origine indicava – anche in modo spregiativo – una precisa fascia di popolazione: giovani che – generalamente tra età scolare e 29 anni – abbandonano qualsiasi percorso di potenziamento, di educazione e formazione, nonché il mondo del lavoro. Oggi, anche a fronte di numerose critiche e grazie a una maggiore comprensione del problema – NEET è utilizzato come un ‹‹termine comune››, un’etichetta che descrive un’ampia e non generalizzabile categoria di individui, rimandando a grandi e oggettive problematiche strutturali dal punto di vista sociale, economico, culturale. L’approccio delle organizzazioni partner di BUCOLICO non è quindi meramente descrittivo, ma mira a comprendere davvero cosa si cela dietro all’etichetta NEET: esperienze, valori, aspirazioni, difficoltà personali e globali, concentrandosi soprattutto sulla difficile transizione istruzione-lavoro. L’obiettivo è quello di costruire una ‹‹conversazione›› con NEET – per lo più giovani adulti di età post-scolare –, un percorso che da strumenti e politiche porti a una ‹‹migliore comprensione della vita dei NEET››, tenendo a mente le specificità di luoghi e comunità: aree rurali, spesso depresse, con scarsa propensione verso la digitalizzazione, l’imprenditorialità e l’auto-imprenditorialità. I numerosi studi a disposizione – che analizzano i diversi contesti dell’Unione e, più in generale, l’Occidente – spesso non rispondono ‹‹a questo tipo di domande››, né si concentrano sulla ‹‹voce e sulle opinioni›› di NEET anagraficamente più o meno giovani.
Un altro punto di forte interesse è il seguente: qual è davvero il ruolo degli educatori, dei formatori e delle competenze da questi ultimi trasmesse per contrastare il fenomeno NEET? L’educazione, l’istruzione e la formazione – di giovani e adulti -, in dipendenza dalle competenze effettivamente acquisite, dovrebbe essere non soltanto un ‹‹trampolino di lancio›› verso il mondo del lavoro, ma anche un percorso di per sé entusiasmante, di motivazione personale. Al contrario, proprio i percorsi di formazione sono spesso intesi come una fonte di delusione: ‹‹tanti lavori umili, tanta disoccupazione, un brutto rapporto tra formazione e opportunità professionali›› minano fiducia e autostima. Un elemento importante da considerare è la qualità del rapporto tra educatore ed educando: in teoria, una relazione costruita secondo i principi della fiducia e della crescita reciproca, ma spesso assente o quantomeno ‹‹fragile››. Un altro elemento già analizzato è la competenza: chiedersi quali sono le opportunità educative, le competenze di base e specifiche utili per garantire maggiore adattabilità, futuro e appagamento. Il miglioramento della relazione tra educando ed educatore passa attraverso alcuni punti chiave: lo status di NEET, molto spesso...
Al contrario, uno ‹‹degli indicatori›› è proprio l’educazione,
l’istruzione, la formazione: l’incapacità dei percorsi di istruzione e formazione, molto spesso, a ‹‹rispondere alla soggettività››, nonché alle sfide sociali contemporanee, alla specificità di luoghi e territori. Questo presupposto, e cioè che i percorsi di istruzione e formazione non siano più in ‹‹grado di preparare i giovani›› alla vita, al mondo del lavoro e delle professioni, adattandosi a un’oggettiva e contemporanea ‹‹mancanza di opportunità›› è tuttavia tanto estremo quanto quello che vede nel NEET un ‹‹pigro››, incapace di affrontare sfide quotidiane e qualsiasi forma di competizione. Il contesto è, in realtà, molto più complesso: l’etichetta NEET è ibrida e sfuggente: ora antisociali, ora categoria vulnerabile che deve affrontare numerose sfide durante la transizione tra formazione e mondo del lavoro (Olssen, Castells, Rifkin, 2005). I NEET non sono, in realtà, un gruppo omogeneo e le stesse parole chiave che compongono l’acronimo (Education, Employment, Training) si prestano a numerose intepretazioni. Ogni ‹‹NEET›› è quindi un soggetto che ha ‹‹precise esigenze individuali›› e richiede ‹‹diverse forme di supporto e sostegno››. Molto spesso i dati suggeriscono che lo ‹‹status di NEET›› è in realtà temporaneo: ‹‹Più di tre giovani su dieci (31%) intervistati erano NEET in qualche momento durante i tre anni dopo la fine del scuola dell'obbligo›› (Mengual-Andrés, 2016). D’altra parte, è vero che i giovani NEET hanno spesso un livello di istruzione – o, più in generale, competenze – inferiori, In media, i giovani NEET avevano un livello di istruzione inferiore, ‹‹hanno “perso” più tempo›› tra un percorso e l’altro, hanno un atteggiamento più conflittuale nei riguardi, per esempio, della scuola e spesso appartengono a contesti sociali e familiari più svantaggiati. Come è vero il divario di genere: le donne tendono a rimanere NEET più a lungo, in Europa. I dati a disposizione, tuttavia, non sono sempre così scoraggianti: la maggior parte dei giovani in Europa, anche in area rurale, ha successo nel mondo dell’istruzione e della formazione e compie una transizione agevole verso il mondo del lavoro, sebbene di recente la disoccupazione giovanile in EU, dopo un momento di ripresa, sia nuovamente preoccupante, soprattutto per paesi come l’Italia, la Bulgaria, la Grecia, la Spagna (considerate le notevoli variazioni dal punto di vista regionale o secondo il rapporto periferia-centro): il 23,4% di giovani di età compresa tra 16 e 24 anni in Italia era, a inizio 2020, senza lavoro, istruzione o formazione (NEET) (Media Europea 14,2%. Fonte: Eurostat, 2020). Questi dati, che non hanno subito grandi variazioni, si traducono in un incredibile costo pubblico, in perdita di produzione, in scarsa inclusione sociale. Ma oltre ai costi sociali e pubblici dei NEET, ci sono soprattutto gli effetti individuali, soggettivi, emotivi ed esperienziali, di benessere: la disoccupazione aumenta ‹‹le consultazioni mediche››, ‹‹il consumo di farmaci››, ‹‹il rischio di mortalità››, ‹‹le tendenze suicidarie e il rischio di disturbi psichiatrici e/o l’uso di sostanze››. Di recente, sono diventate numerosissime le iniziative e i programmi di sostegno specificamente per NEET: per esempio, uno dei primissimi programmi europei di rilievo ritenuto complessivamente efficaci è stato il New Deal per i giovani (UK) 1998-2002: tirocini, DET, sussidi, originariamente pensato più per evitare il drop-out scolastico che la transizione scuola-lavoro. Queste prime programmazioni non hanno soltanto ispirato programmi e azioni successive fino a oggi, supportando l’aumento delle capacità lavorative, ‹‹delle conoscenze e aspirazioni››, ma a sottolineare il fatto che:
Non è facile valutare impatto ed efficacia di programmi, azioni e politiche attive, soprattutto se rivolte esclusivamente a contesti nazionali, regionali o provinciali, data spesso l’assenza di modelli di riferimento, linee guida e indicatori, nonché la dipendenza dalle ‹‹fluttuazioni nei climi politici ed economici››, senza considerare il carattere volontario, episodico dei casi-studio prodotti da chi effettivamente ha tratto beneficio da politiche attive e programmi di sostegno e reinserimento scolastico-formativo-lavorativo. Uno degli scopi di questa introduzione è quello di ‹‹identificare, sintetizzare e valutare›› in chiave non soltanto sperimentale, ma anche localizzata gli effetti di tali interventi e programmi – ma anche delle specifiche competenze, con attenzione alle competenze ICT – non soltanto dal punto di vista macrostrutturale (occupazione e occupabilità, rendimento), ma anche dal punto di vista individuale, soggettivo, emotivo-esperienziale. La ricerca è stata compiuta non soltanto mediante report nazionali e comunitari (ISTAT, Italia; Eurostat), ma anche su articoli di taglio scientifico-accademico, per lo più in lingua inglese, che analizzano il contesto Europeo nella sua totalità, salve le forti differenze tra Stati e Regioni (database come Medline, Embase, PsycINFO, Google Scholar). In sintesi, prima di affrontare più nel dettaglio il quadro non soltanto italiano, ma rurale, sono ciclicamente evidenziati i seguenti punti:
Poca attenzione all’indagine qualitativa, esperienziale, a vantaggio di mere valutazioni statistiche Sebbene il rigore metodologico e d’indagine sia imprescindibile, è anche vero che un approccio maggiormente qualitativo, particolaristico, non necessariamente aderente ai ‹‹protocolli di “rendicontazione” standardizzati›› offrirebbe una panoramica più esatta degli interventi a sostegno dei NEET in Europa e nel mondo. Questo è in potenza raggiungibile poiché molto spesso, in Italia e in Europa, gli interventi – o quantomeno la loro attuazione – sono forniti ed erogati da organizzazioni private, no profit, enti di volontariato, di conseguenza più a stretto contatto con un’utenza specifica, dotata di qualità marcate e individuali, difficile da generalizzare. Il contesto italiano, la sua storiaClick to read
Nel periodo compreso tra il 2008 e il 2014, l’Italia ha registrato un triste primato: tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni, ben il 27% rientrava nella categoria NEET. Un dato purtroppo rimasto pressocché invariato, sebbene in calo: nel 2020 la stima era del 23,5-24%, ben al di sopra della media europea (intorno al 14,1%). Questo primato drammatico evidenzia un’oggettiva frattura primariamente nella transizione scuola-lavoro. Sebbene di per sé il fenomeno del drop-out scolastico sia preoccupante (Eurostat 2019, 2020: i non diplomati e i non più frequentanti alcun percorso di istruzione e formazione, tra i 14 e i 24 anni, corrispondono a quasi il 14%), il problema principale e ancor più gravoso è l’inserimento nel mondo del lavoro. Tuttavia, sono state e sono tuttora numerose le politiche attive, i programmi e le linee di sostegno in tal senso, non senza criticità: Per esempio, il programma Youth Guarantee iniziato tra il 2014 e il 2015, mediante fondi europei: una garanzia di offerta di lavoro oppure un percorso di formazione, un apprendistato, anche nel mondo dell’associazionismo. I programmi di Garanzia Giovani sono tuttavia attuati in modalità decentrata: ciò ha prodotto numerose diseguaglianze in termini di efficicienza ed efficacia. L’adozione di modelli misti (educazione “duale”), secondo per esempio il modello tedesco, risulta in ugual modo incerta e discontinua: le esperienze lavorative e formative registrate, per esempio durante la scuola e/o l’università, sono numericamente esigue. La stessa situazione è riscontrata nell’analisi dei licei tecnici, nella relazione tra Atenei, ITC e imprese: ‹‹le assunzioni tramite contratti di apprendistato rappresentano solo il 4% del totale›› (Commissione Europea, 2020). In Italia è riscontrata inoltre, dal punto di vista politico e strategico, una maggiore attenzione nei riguardi dell’ingresso al mercato del lavoro, per esempio mediante agevolazioni, incidendo poco sulla dimensione delle competenze, sull’aggiornamento dell’offerta formativa scolastica e/o universitaria: ‹‹in Italia il passaggio dalla scuola al mondo del lavoro continua a essere lento e difficoltoso››. Report e analisi del contesto italiano hanno tentato di fornire spiegazioni a tutto questo:
Ancora nel 2020 l’Italia registra ed evidenzia condizioni drammatiche, che richiedono analisi e spiegazioni: perché proprio i giovani? Perché la disoccupazione giovanile sembra essere sempre in aumento, al di là delle accelerazioni negative dovute alle crisi europee e globali? Sono stati registrati momenti di ripresa (per esempio intorno al 2010, fonte: ISTAT), immediatamente vanificati: già nel 2011 la disoccupazione per la fascia d’età 14-29 ha ripreso a crescere esponenzialmente, toccando il massimo storico nel periodo 2013-2015, quasi raddoppiando nel corso di meno di dieci anni (registrando l’Italia, come oggi, uno dei tassi più alti in Europa insieme a Spagna, Grecia, Portogallo e di recente altri paesi come la Bulgaria). Al contrario, il tasso di disoccupazione dei senior non è aumentato così drammaticamente, anzi: le riforme del sistema pensionistico degli ultimi dieci anni tendono a mantenere a lavoro un gran numero di lavoratori già senior più a lungo. Nel complesso, il divario tra disoccupazione giovanile e disoccupazione “senior” in Italia continua a essere altissimo. La fascia giovanile è inoltre interessata, come detto, dal più vasto fenomeno di inattività e alienazione (NEET) ed evidenzia ancora di più il divario di genere, di per sé presente anche nella fascia anagrafica senior. L’Italia è al contempo fortemente – e tristemente – segnata da una fortissima differenza regionale e territoriale: il Meridione registra tassi più che allarmanti e, nel complesso, ‹‹l’evoluzione del tasso di disoccupazione al Sud [e nelle aree rurali] è ancora più sensibile al ciclo economico››: paradossalmente la riduzione del tasso di disoccupazione giovanile prima delle note crisi contemporanee era più rapida al Sud che al Nord. Per quanto riguarda la composizione dei NEET (inattivi, non esclusivamente disoccupati), in Italia si assiste per lo più a una commistione: i NEET italiani spesso sono tali per le complessive difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro: di per sé il problema principale in Italia. L’importanza dell’educazione al Digitale e dell’Inclusione DigitaleClick to read
La digitalizzazione e/o la ‹‹trasformazione digitale›› caratterizzano sempre di più la nostra società e le nostre vite quotidiane, influenzando particolarmente le generazioni più giovani. Essere pronti a comprendere le forme della trasformazione digitale significa inoltre partecipare attivamente ai cambiamenti e agli impatti che queste stesse tecnologie producono sul piano sociale, economico, lavorativo. ‹‹In quanto fenomeno sociale, la digitalizzazione può sia favorire sia ostacolare l’inclusione sociale››. In ogni caso l’accesso alle ICT, alle diverse tecnologie digitali, è in costante aumento: istruzione ed educazione di giovani e adulti, informazione, comunicazione tra pari, intrattenimento: tutto è permeato dalle ICT. Se tuttavia sono riconosciuti i vantaggi delle ICT e, più in generale, della digitalizzazione e della ‹‹trasformazione digitale››, è anche vero che – come anticipato – esse stesse possono produrre e/o attestare ‹‹divari significativi in termini di competenze e accessibilità››. Non soltanto: un forte divario è presente sul piano delle tecnologie effettivamente disponibili e utilizzabili a seconda del territorio preso in esame, del contesto socioculturale. ‹‹L’inclusione sociale digitale›› e, ancora, l’inclusione sociale ‹‹attraverso il digitale›› diviene quindi contemporaneamente una priorità e una sfida da superare: tutti gli individui e tutte le comunità dovrebbero potere avere accesso alle ICT, nonché a percorsi di formazione ed educazione utili per utilizzare al meglio le ICT, soprattutto dal punto di vista dell’occupabilità. Nel corso del tempo, sono stati individuati diversi indicatori utili per ‹‹valutare e comprendere il livello di inclusione digitale›› di individui e comunità:
Purtroppo, l’avanzare della tecnologia – per esempio dal punto di vista infrastrutturale – non corrisponde a un aumento dell’inclusione sociale digitale: questo secondo punto richiede una minuziosa pianificazione, ‹‹strategie intenzionali›› nazionali e/o comunitarie. Sono tuttavia ampiamente presenti strumenti, strategie e piani – soprattutto a sostegno della gioventù e delle categorie vulnerabili tra cui i NEET – che possono, se ben adoperate, contribuire all’eliminazione di barriere socioculturali, storiche, geografiche. Le comunità politiche sono concordi nel ritenere la trasformazione digitale o, più semplicemente, le ICT come risorse oggi fondamentali per ‹‹favorire l’inclusione sociale (...) e la partecipazione›› democratica, valorizzando ‹‹il capitale umano, sociale e culturale›› non soltanto di giovani e giovani adulti, ma di tutte le comunità di individui, indipendentemente dall’età e dal contesto socioculturale d’appartenenza. Se tuttavia è registrato un incremento – per esempio in termini d’investimento – nelle risorse digitali (McLoughlin, 2018), non è così per l’educazione: alla crescita esponenziale di infrastrutture e servizi non sembra corrispondere un’adeguamento e una crescita della ‹‹dimensione educativa e sociale della digitalizzazione››, in grado di favorire non soltanto l’accesso, ma anche l’utilizzo consapevole di tali risorse e innovazioni nonché un’adeguata alfabetizzazione politico-culturale. È importante sottolineare che la trasformazione digitale non permea soltanto la nostra quotidianità, abitudini e consumi: essa ha già trasformato soprattutto l’accesso all’educazione, alla formazione e, più in generale, alla conoscenza. Se questo produce grandi vantaggi, per esempio dal punto di vista dell’accessibilità, è anche vero il contrario: gli individui sono infatti tenuti a ‹‹aggiornare›› costantemente le proprie competenze per ‹‹fare fronte ai rapidi cambiamenti›› di tecnica, cultura e disposizione per esempio nel mondo della scuola, della formazione professionale e del lavoro: bisogna cioè ‹‹attrezzarsi›› e ‹‹riattrezzarsi›› nel mondo del digitale al fine di cogliere di volta in volta diverse opportunità ‹‹offerte›› dal digitale. Nel dettaglio, la letteratura in merito evidenzia tre grandi ‹‹kit›› di competenze che necessitano monitoraggio e aggiornamenti costanti:
Questi ‹‹kit››, indipendentemente dal loro grado di complessità, richiedono in ogni caso una maggiore attenzione alla ‹‹costruzione delle competenze››: abilità e disposizioni acquisite dall’individuo nel corso del suo apprendimento permamente. La ‹‹trasformazione digitale›› e la digitalizzazione non fanno eccezione: è necessario un aggiornamento sia dei sistemi d’istruzione ed educazione formale, sia di quelli di natura non formale e informale. Le tre formule dell’educazione, abbracciando e promuovendo il digitale, più che porre enfasi sulla dimensione tecnica e settoriale delle ICT, dovrebbero esaltare maggiormente il valore di un’educazione digitale ibrida, olistica, trasversale: la domanda di competenze tecnologico-digitali cambia infatti in modo repentino e, ‹‹a causa dei rapidi cambiamenti tecnologici››, è difficile ‹‹identificare ciò che sarà richiesto in futuro – anche nel medio termine – dal mondo del lavoro››. L’alfabetizzazione digitale dovrebbe fornire – in ambito formale, non formale, informale – competenze trasversali che permettono all’individuo di ‹‹adeguarsi velocemente›› ai mutamenti e alle mutazioni della domanda. Un altro punto di rilievo per l’alfabetizzazione digitale è il benessere: un accesso e un utilizzo consapevole e pieno delle nuove opportunità tecnologico-digitali comportano un miglioramento della qualità della vita. Tra le risorse migliori a disposizione che, per loro fisionomia, rispondono meglio a queste sfide, vi sono senz’altro le OER (Open Educational Resources). La sfida non è tuttavia esclusivamente di natura tecnico-strutturale: bisogna ‹‹collegare tali strumenti a un piano pedagogico efficace››: è infatti rilevato il fatto che tali risorse open source – che abbracciano anche i sistemi di certificazione delle competenze, di accesso al lavoro e/o alla formazione professionale, senza considerare l’impatto sulla dimensione sociale, culturale, emotiva e politica del discente – continuano a essere un’eccezione. Spesso poco adottate da parte degli educatori, insegnanti, formatori, animatori socioculturali: pesa senz’altro un pregiudizio sulla validità dell’educazione online, nonché su quella relativa alla certificazione delle competenze acquisite tramite queste risorse. Ciò nonostante, domanda di competenze ICT di base, generiche e trasversali da parte del mondo del lavoro – indipendentemente dalla fonte primaria di tali competenze – continua a crescere nei paesi dell’Unione (OCSE, 2016).
Le competenze ICT specialistiche e settoriali – una panoramica È noto il fatto che le competenze ICT di alto profilo, specialistiche e settoriali, tendono a corrispondere a un alto tasso di occupabilità. Non solo: esse corrispondono a ‹‹occupazioni tra le più dinamiche e in evoluzione››, ma anche ad alcune forti disuguaglianze. Alcuni dati:
Tuttavia, sebbene la richiesta di esperti ICT sia in crescita costante – non senza contraddizioni e difficoltà –, è rilevata una domanda più di natura trasversale: Non soltanto quindi competenze di natura settoriale, ma la capacità di ‹‹adattarsi agli ambienti di lavoro costantemente rimodellati dalle ICT e dalle innovazioni tecnologico-digitali››: essere in grado di partecipare attivamente ad ‹‹ambienti ricchi di tecnologia››. La trasformazione digitale non riguarda soltanto gli addetti ai lavori: essa ha un peso enorme anche sulla trasformazione delle mansioni e professionalità routinarie, ordinarie.
OCSE – La strategia per l’acquisizione di competenze Come anticipato, le competenze che lavoratrici e lavoratori del futuro dovranno acquisire sono non soltanto diverse rispetto al passato, ma anche difficili da identificare con precisione:
L’OCSE – per fare fronte a queste sfide, ha sviluppato una ‹‹strategia per le competenze›› in grado di identificare cosa vi è di buono e cosa necessita aggiornamenti nei diversi sistemi di educazione e formazione, sul piano internazionale. L’obiettivo è quello di garantire non soltanto un’educazione in grado – in modalità trasversale – di fare fronte alle sfide della ‹‹trasformazione digitale››, ma anche di garantire nel complesso una migliore inclusione sociale, sviluppo e crescita per l’individuo e per le comunità: Un approccio per il miglioramento della trasmissione e acquisizione di competenze che:
Le competenze per l’economia e la trasformazione digitale Le raccomandazioni e le linee guida dell’OCSE – e di numerose altre agende, per esempio comunitarie – sottintendono spesso un elemento: tra le competenze maggiormente rilevanti e trasversali, tra le più rilevanti vi sono senz’altro quelle digitali Nel dettaglio, la partecipazione alla vita economica, sociale, culturale contemporanea – non soltando dal punto di vista formativo e/o lavorativo – richiede l’acquisizione di ‹‹competenze specificamente digitali››, in grado di adattarsi ai rapidi mutamenti tecnologici. Come anticipato, dal punto di vista delle offerte e dei sistemi educativi, formativi e d’istruzione, questo spesso significa incentrare la propria azione sull’‹‹alfabetizzazione digitale››, anche a discapito di competenze più specialistiche e, quindi, settoriali. È prioritario quindi che gli individui abbiano ‹‹solide capacità di base››, una buona preparazione analitica, ‹‹di pensiero, sociale e finanche emotiva››. L’‹‹alfabetizzazione digitale›› rientra infatti pienamente nelle principali riforme d’educazione, formazione e istruzione promosse da diversi paesi dell’OCSE. Per esempio: iniziative incentrate sulla piena introduzione dell’ ‹‹alfabetizzazione digitale›› nelle offerte “ECEC – Early Childhooh Education and Care – Prima infanzia e offerta educativa primaria”. Tra cui emergono, per esempio, la Strategia Nazionale polacca (2013) per favorire l’‹‹alfabetizzazione digitale›› in ambito ECEC; la Strategia Nazionale per la prima infanzia in Australia (2009-2014). L’introduzione, anche in modo massiccio, di moduli di ‹‹alfabetizzazione digitale›› fin dalla tenera età – con un’adeguata proposta di upskilling e reskilling degli educatori e dei sistemi educativi coinvolti – ha funzionato inoltre come ottimo strumento per garantire maggiore equità (per es. in termini di opportunità d’apprendimento) e inclusione, per ridurre il tasso di abbandono scolastico, per migliorare le competenze in ambito scientifico, matematico, logico. Molto spesso le linee guida per l’attuazione di queste strategie e riforme – non soltanto in ambito ECEC, ma anche per l’istruzione superiore, l’educazione degli adulti etc. – si strutturano secondo tre priorità:
L’‹‹alfabetizzazione digitale››, infatti, spesso significa ‹‹uso competente e consapevole dei media››, il quale dipende in ogni caso da competenze (di base, non settoriali) e da fattori ambientali (sociali, culturali) più che ‹‹infrastrutturali››.
Che tipo di competenze? L’introduzione efficace di strategie a sostegno dell’‹‹alfabetizzazione digitale›› spesso si struttura secondo alcuni ‹‹principi base››:
Con enfasi soprattutto sul problem solving in qualità di approccio privilegiato.
Alcuni esempi di buone pratiche Il progetto OCSE Innovative Learning Environments Universe offre uno dei pochi ‹‹inventari›› di riforme, sistemi e proposte di buona ‹‹alfabetizzazione digitale››, secondo una panoramica che va dalla Prima Infanzia all’Educazione degli Adulti e alla Formazione Professionale.
Buone Pratiche Digitali La sfida più di rilievo da affrontare, in ambito digitale, è il rischio di esclusione e marginalità: la promozione dell’‹‹alfabetizzazione digitale›› sottintende equo accesso ad alcune risorse tecnologiche, al di là delle competenze ICT sia di base sia più settoriali. L’introduzione delle ICT nel curriculum educativo, scolastico e formativo è tendenzialmente di responsabilità della politica e dei governi nazionali, con differenze talvolta sostanziali tra paese e paese in ambito comunitario. Per esempio: Svezia: l’acquisizione di competenze ICT è pienamente integrata nel curriculum scolastico tradizionale, a partire dal 2011: ‹‹ogni alunno [frequentante le scuole svedesi], al termine della scuola primaria, deve essere in grado di utilizzare le principali moderne tecnologie ICT, soprattutto al fine di acquisire conoscenza, comunicare, creare, apprendere››. Questa spinta è al contempo visibile nelle riforme dell’offerta educativa e formativa superiore e/o professionale: è per esempio stato ‹‹introdotto›› un nuovo parametro di valutazione e qualifica degli educatori – in ambito ICT – sia di area Primaria sia Secondaria o di Formazione Professionale. Nel più vasto mondo occidentale, per esempio negli Stati Uniti, è da segnalare la Computer Science for All: un’iniziativa volta all’acquisizione di competenze informatiche soprattutto a sostegno di futuri educatori, formatori e insegnanti: una riformulazione dei materiali didattici (Alta Formazione) e dei curricula. Un altro esempio di buone pratiche per la promozione di competenze ICT in contesto europeo è Informatik-Biber (Germania): un vero e proprio ‹‹concorso›› di informatica promosso per la prima volta nel 2007 e da lì replicato ogni anno (rivolto a discenti di età 10 – 17 anni). Uno strumento volto anzitutto a stimolare l’interesse da parte dei giovani discenti in ambito ICT, non richiedendo particolari competenze né formazione settoriale. Altri esempi di buone pratiche a sostegno dell’‹‹alfabetizzazione digitale›› sono senz’altro quelle rivolte a categorie più “a rischio d’eclusione”, per esempio gli anziani, ma anche le donne. Per esempio, in Portogallo, la ‹‹Strategia Nazionale per l’Inclusione e l’Alfabetizzazione Digitale›› ha moblitato in modalità traversale enti pubblici – di diversa natura e grandezza – settore privato, no profit, educatori e comuni cittadini, per l’attivazione di moduli di ‹‹alfabetizzazione digitale›› utili per colmare eventuali divari, soprattutto per coloro i quali non avevano mai utilizzato internet (principalmente attraverso la creazione di una piattaforma nazionale “multi-stakeholder” ricca di risorse educative e formative). Un altro esempio virtuoso è la Norvegia, dal punto di vista dell’accesso ma anche dell’uso consapevole dei media e di internet (Media Barometer, 2015). In Italia, volgendo lo sguardo verso la Formazione Professionale post-scolastica, si segnala l’iniziativa Crescere in Digitale: Percorsi formativi formativi e laboratori online (interamente gratuiti) di ‹‹alfabetizzazione digitale›› unitamente all’attivazione di tirocini formativi in accordo con numerosissime realtà private, in grado di aderire all’iniziativa attraverso candidature e adesioni al programma semplici e immediate. La piattaforma di Crescere in Digitale è inoltre un catalogo inesauribile di storie di successo e case studies virtuosi: giovani adulti che hanno completato non soltanto i corsi di ‹‹alfabetizzazione digitale››, ma che hanno avuto l’opportunità di accedere al mercato del lavoro mediante un percorso privilegiato di upskilling e formazione. A partire dal 2007 la Commissione Europea è ‹‹in prima linea per promuovere iniziative utili per l’acquisizione di competenze ICT trasversali››: non soltanto competenze settoriali e specialistiche – utili per rispondere alla sempre crescente domanda di professionisti ICT altamente qualificati –, ma anche competenze di base necessarie per garantire ‹‹inclusione digitale›› ed equo accesso alla cultura, alla politica, alla società contemporanea. Per esempio: le iniziative nate grazie al Fondo e al Programma per la Competitività e l’Innovazione (2014-2020), che ha avuto il merito di coinvolgere massivamente la rete comunitaria di piccole e medie imprese. Un’altra iniziativa di rilievo è Opening-up Education, insieme a E-Skills for Jobs: Programmi, risorse e progetti di varia natura – in entrambi i casi multi-stakeholder, prevedendo il coinvolgimento di pubblico e privato – orientati alla riduzione del divario di competenze, al sensibile aumento della digitalizzazione nel mondo del lavoro, alla riformulazione in chiave ICT di sistemi e offerte educative, formative. Entrambe le iniziative hanno avuto immediate ricadute: tirocini, stage professionalizzanti, campagne di sensibilizzazione in pressocché tutti i paesi dell’Unione, volte al coinvolgimento di giovani adulti affinché familiarizzassero con le nuove opportunità lavorative in ambito ICT. Queste strategie hanno avuto – e hanno ancora oggi – alcune priorità essenziali:
Queste tre priorità, che dovrebbero essere condivise da tutte le offerte e le proposte formative a sostegno dell’‹‹Alfabetizzazione Digitale››, rispondono a precise esigenze: favorire ‹‹motivazione, occupabilità e opportunità formative e d’apprendimento››, migliorando ‹‹l’occupabilità›› attraverso un costante lavoro di ricerca, monitoraggio, unitamente a consulenza e formazione. Le competenze ICT richieste in ambito lavorativo – insieme alla sempre più crescente e diversificata domanda da parte del mercato – hanno riformulato anche le attività di consulenza e di accompagnamento al lavoro: Per esempio, in Portogallo, la ‹‹Strategia e il Piano d’Azione per l’Occupabilità Digitale 2015-2020››, una forma di Garanzia Giovani, ha proposto numerosi tirocini post e para scolastici unitamente a strategie di formazione continua di base e settoriale ICT. Questo tipo di programmi e iniziative è oggi presente in gran parte degli Stati Membri, soprattutto in quelli che soffrono alti tassi di disoccupazione giovanile (Italia, Spagna, Grecia). La Spagna, per esempio, rientra tra i casi virtuosi di adozione delle linee guida della Garanzia Giovani con forte propensione verso le ICT. I programmi di inserimento e re-inserimento promossi dal 2013 al 2017 – con un supporto finanziario di provenienza europea – si sono concentrati sul ‹‹garantire che (...) le competenze professionali includano le ICT e, nel complesso, la formazione e l’alfabetizazione digitale, con attenzione al ruolo delle ICT nel favorire l’ingresso nel mercato del lavoro da parte delle categorie più vulnerabili e a rischio esclusione››.
Le no profit Le no profit, di varia natura, sono sempre più impegnate nella produzione e nella diffusione di risorse educative e formative utili per a) accompagnamento verso il mercato del lavoro b) reinserimento c) formazione continua, upskilling, reskilling. Molti progetti e iniziative, così concepite, agevolano l’integrazione dei sistemi di educazione e formazione in ambito ICT, spesso con attenzione – talvolta esclusiva – alle categorie vulnerabili. Molte iniziative si sono concentrate per esempio sul divario di genere: un’offerta formativa di qualità specificamente per donne disoccupate, con ‹‹l’obiettivo di migliorare la loro occupabilità mediante ICT›› (per esempio e-Skills for Women, Lussemburgo, co-finanziato da JPMorgan). O ancora: Interface3 (Belgio): oggi un insieme di risorse educative, formative, di upskilling, inclusive di programmi per l’apprendimento delle lingue, concepito specificamente per donne vulnerabili. Interface3 è un punto di partenza per le progettualità no profit a sostegno dell’alfabetizzazione digitale in virtù del suo ‹‹approccio completo››: formazione tecnica ICT, mentoring, role models, lingua francese per stranieri.
Le competenze digitali: un uso efficace I dati emersi dalla ricerca OECD – Survey of Adult Skills (PIAAC) continua a evidenziare un forte dislivello di competenze: lettura, scrittura, produttività (2014-2020). Quando manca una strategia per l’apprendimento permamente, per la formazione continua sul post di lavoro, cresce il divario. L’uso ‹‹consapevole e pieno delle ICT›› - sia per i giovani sia per il target senior – è una priorità di tutti i paesi OCSE.
Sfatiamo un mito . . . I dati precedentemente citati che emergono dalla OECD – Survey of Adult Skills (PIAAC) sottolineano un altro elemento: i giovani di prima età adulta (18-29 anni) che fanno il proprio ingresso nel mondo del lavoro fanno ‹‹poco uso delle ICT e, più in generale, delle competenze in linea di massima derivate da percorsi di alfabetizzazione digitale, soprattutto rispetto alla fascia anagrafica più giovane, ancora in età scolare››. Questo in contrasto con l’opinione comune che intende i giovani adulti oggi come ‹‹nativi digitali››, quasi spontaneamente inclini alla comprensione e all’uso consapevole delle ICT (Livingstone et al. 2014).
NEET e competenze digitali Che tipo di ICT utilizzano i NEET (dai 14 ai 29 anni)? Secondo la ricerca Digital Exclusion Profiling of Vulnerable Groups – Young People not in Education, Employment or Training (NEET), emergono alcuni elementi altamente caratteristici: - I NEET non sono ‹‹necessariamente consapevoli di avere appreso specifiche competenze in ambito ICT›› Sebbene possa essere riscontrato, talvolta, un buon livello di ‹‹alfabetizzazione digitale››, non connesso a precise strategie, programmi o azioni d’educazione e formazione. Alcune ICT – secondo le risposte del focus group – sono tuttavia di uso comune:
- Comunicazione - Socialità - Svago Con scarso interesse nei riguardi delle attività di scrittura, anche informale (per esempio: SMS o similari). Preponderante è tuttavia lo svago:
Molto più episodico è l’uso di device fissi, personal computer o altro: preponderante, in questo caso, l’uso di social media e ancora:
In ordine decrescente. Nel complesso, la ricerca e i dati emersi individuano precise tecnologie fisiche privilegiate, che sembrano ‹‹funzionare meglio› per individui né in formazione né a lavoro:
Bibliografia e riferimentiClick to read
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• Che percezione hanno i NEET della scuola e delle opportunità offerte dall’istruzione scolastica?
• Che percezione hanno i NEET della formazione professionale? e delle opportunità offerte dall’istruzione scolastica?
• Cosa “funziona” davvero per i NEET? Quali sono le maggiori preoccupazioni dei giovani né in formazione né a lavoro?
• Quali sono le aspettative e le concrete opportunità di riuscita?
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